Abbiamo parlato con Stefano Masini, responsabile Ambiente e Territorio Coldiretti, per capire il punto di vista del mondo agricolo sugli sviluppi agrivoltaici. Masini considera positivamente gli impianti agrivoltaici “avanzati”, mentre si oppone al modello di business degli altri impianti agrivoltaici, sostenendo che l’occupazione del suolo da impianti a terra su terreni agricoli potrebbe portare, nel peggiore dei casi, a una riduzione della produzione agroalimentare stimata in 4 milioni di quintali, per un danno economico di oltre 7 miliardi di euro in un decennio. Secondo Masini, il dimensionamento degli impianti non dovrebbe fare riferimento alle economie di scala o a logiche industriali come avviene per il fotovoltaico a terra.
pv magazine: Un problema legato all’agrivoltaico che diversi esperti hanno suggerito è il seguente: il rapporto di forza tra la parte agricola e la parte fotovoltaica è tale che i redditi più alti derivanti dalla parte fotovoltaica potrebbero dare meno importanza all’agricoltore. Cosa vuol dire in pratica?
Stefano Masini: L’agrivoltaico, così come definito nelle “Linee Guida in materia di Impianti Agrivoltaici” pubblicate nel giugno 2022 a cura di un Gruppo di lavoro coordinato dal MiTE e nello stesso PNRR, dovrebbe essere una tecnologia prioritariamente al servizio di necessità plurime dell’impresa agricola, tra cui, ovviamente, quella energetica. La sua integrazione con le attività agricole, tuttavia, non dovrebbe stravolgere quegli equilibri che qualificano il reddito agricolo. Per conservare questo equilibrio è necessario che si ragioni in modo diverso rispetto agli investimenti prettamente energetici. Il dimensionamento degli impianti, quindi, non dovrebbe fare riferimento alle economie di scala o a logiche industriali come avviene per il fotovoltaico a terra ma, piuttosto, essere proporzionato, sia in termine di occupazione di superficie che di produzione energetica, alle esigenze di una impresa che deve restare a tutti gli effetti caratterizzata da un reddito di prevalente provenienza agricola. In altre parole, anche la produzione energetica proveniente da un impianto agrivoltaico deve configurarsi come una attività ricompresa nel concetto di multifunzionalità (e quindi prevedendo anche limitazioni atte a garantire la funzione primaria dell’agricoltura).
Dal punto di vista normativo, oltre ad una individuazione del soggetto beneficiario degli incentivi finalizzata a garantire il protagonismo degli imprenditori agricoli, per evitare che l’appetibilità dei redditi producibili dalla componente energetica possa allontanare gli investimenti dalla vera funzione dell’agrivoltaico sarebbe opportuno giungere anche alla definizione di alcuni limiti di occupazione delle superfici agricole. Solo attraverso impianti di volta in volta “cuciti su misura” rispetto alle esigenze dell’impresa agricola, infatti, si può garantire che la produzione, l’utilizzo e la vendita dell’energia prodotta da un impianto agrivoltaico possa configurarsi effettivamente funzionale alle esigenze degli agricoltori. Fermo restando l’interesse degli imprenditori agricoli per iniziative di produzione energetica come attività integrativa alla coltivazione e all’allevamento, inoltre, risulta necessario considerare la necessità di preservare, attraverso opportuni interventi di governance territoriale, le produzioni agricole di valore, come le I.G.P. e le D.O.P..
Diversi esponenti del mondo agricolo hanno sottolineato che alcuni recenti progetti hanno dimostrato che si cerca spesso di dare un’impronta agricola soltanto per giustificare l’impianto agrivoltaico. Avete in mente modi per evitare questi sviluppi?
Il fenomeno si è diffuso proprio perché fino ad oggi spesso non si è operato con le logiche descritte nella risposta precedente, ovvero considerando gli investimenti sull’agrivoltaico come una sorta di scappatoia rispetto all’impossibilità di incentivare il fotovoltaico a terra nei suoli agricoli (in base a quanto previsto dall’art.65 del d.l. 24/01/2012, n. 1 e successive sue modificazioni).
Si ricordi, a proposito, che il divieto di incentivo relativamente al fotovoltaico a terra è stato introdotto per contrastare gli impatti negativi sul paesaggio e sul consumo di suolo. Prima del divieto, durante la prima fase di incentivazione del fotovoltaico, che includeva gli impianti “a terra”, infatti, si è già registrata una perdita irreversibile di suolo agricolo. In base ai dati del rapporto statistico GSE 2014, la superficie di pannelli installata a terra a quella data – pari a 13.876 ettari di cui 4.000 solo in Puglia – corrisponde a circa 30-35.000 ettari sottratti all’uso agricolo. Il dato attuale, tuttavia, è semi-sconosciuto in quanto specie negli ultimi anni si sta registrando un forte aumento di investimenti “senza incentivo” con superfici che, quindi, non rientrando nelle statistiche GSE, sfuggono alla rilevazione. A livello nazionale, comunque, anche l’ultimo rapporto ISPRA rileva, istituendo una nuova voce nell’ultimo report sul consumo di suolo, l’aumento di coperture artificiali dovuto anche all’installazione di nuovi impianti fotovoltaici a terra. In prospettiva, inoltre, in base agli obiettivi energetici fissati dal PNIEC, l’investimento necessario, in termini di suolo agricolo, per ospitare gli impianti fotovoltaici potrebbe corrispondere ad ulteriori 70-90.000 ettari, pari circa allo 0,3-0,5 % della superficie agricola utilizzata (SAU). Una occupazione di suolo che potrebbe riflettersi su una riduzione della produzione agroalimentare stimata in 4 milioni di quintali, per un danno economico di oltre 7 miliardi di euro nell’ultimo decennio.
La diffusione di un agrivoltaico sostenibile ed equilibrato, tuttavia, è possibile ed auspicabile, al patto, come già detto, che il protagonismo resti in capo all’impresa agricola e non alle imprese energetiche che operano, comprensibilmente, con altre logiche. Anche nell’ipotesi di massima diffusione dell’agrivoltaico, infatti, occorre sottolineare come gli investimenti, mirati ad integrare la funzione di produttore agricolo con quella di produttore di energia, debbano permettere alla stessa impresa agricola di essere ancor più competitiva e qualitativa nella produzione primaria, come già avviene con particolare successo attraverso la produzione del biogas.
Detto tutto ciò, ragionando anche più in generale sull’impiego della tecnologia fotovoltaica, stante la necessità e l’utilità dell’individuazione di ambiti e contesti rurali in cui realizzare impianti nel pieno rispetto dell’attività agricola, per tutti quegli investimenti destinati ad interessare in qualche modo il suolo agricolo si ritiene necessario prevedere un ruolo imprenditoriale dell’agricoltore ed un suo coinvolgimento non formale, ma oggettivo: il legislatore ha già stabilito il principio che, entro certi limiti, la produzione di energia rinnovabile elettrica e termica svolta dall’imprenditore agricolo sia riconosciuta come attività agricola connessa e i redditi conseguiti siano soggetti ad una tassazione di vantaggio.
Avete idee per rendere l’agrivoltaico più sostenibile? Per esempio, ricorrere all’agrivoltaico quando è necessario diminuire il consumo d’acqua, soprattutto in regioni con meno acqua?
La tecnologia agrivoltaica, soprattutto per quanto attiene gli impianti considerati “avanzati” dalle citate linee guida ministeriali, se applicata con opportuni criteri costituisce di per sé un importante passo in avanti verso modelli più sostenibili di agricoltura. Il requisito del monitoraggio (che, andrebbe chiarito, non è riferito alle prestazioni dell’impianto energetico ma agli impatti prodotti dallo stesso alle produzioni agricole e all’ambiente) infatti, dovrebbe garantire la possibilità per le imprese agricole di cimentarsi nell’applicazione di tecnologie che possono definirsi complementari alla diffusione della cosiddetta “agricoltura di precisione”, intesa come elemento necessario alla misurazione, gestione e valorizzazione delle performance ambientali e climatiche delle imprese agricole (riduzione consumi idrici, impronta carbonica, impatto sulla biodiversità, ecc.). Questa impostazione sottolinea ulteriormente la necessità di considerare la produzione energetica al servizio delle esigenze tecniche, economiche ed ambientali dell’impresa agricola multifunzionale (e non il contrario).
Cosa pensa degli ultimi sviluppi nella giurisprudenza italiana per quanto riguarda l’agrivoltaico? Sticchi Damiani dice che il quadro normativo è ora chiaro. È d’accordo? Quali sono le problematicità?
Come era intuibile, i ritardi nell’attuazione della normativa per la definizione delle aree idonee e non idonee all’istallazione di impianti di energia rinnovabile, unitamente a fughe in avanti, a livello regionale, nelle definizioni stesse e nelle norme che regolano sull’agrivoltaico, hanno purtroppo lasciato spazio ad investimenti speculativi ed oggi ci si trova ancora alle prese con problematiche che la normativa non ha risolto. L’esigenza di fare dell’agrivoltaico una tecnologia in grado di accedere facilmente e velocemente agli incentivi energetici, infatti, probabilmente non si sposa bene con la complessità che richiede un approccio di reale integrazione tra produzioni energetiche ed agricole, a fronte di tutte le interconnessioni che interessano obiettivi, contestuali e paritari rispetto alla necessità di incrementare la quota di energie rinnovabili, quali quello della conservazione del paesaggio, la riduzione del consumo di consumo di suolo e la preservazione della biodiversità e delle produzioni agricole di pregio. Per l’agrivoltaico, quindi, sulla base delle finalità espresse anche negli attuali documenti programmatori (PNRR e attuazione della direttiva RED2) si ritiene necessario procedere, a livello normativo, con maggiore decisione in direzione della limitazione della possibilità di realizzazione degli impianti in aree agricole ai soli coltivatori diretti o imprenditori agricoli professionali (impianti di proprietà – o partecipati attraverso forme sociali – di coltivatori diretti o imprenditori agricoli professionali), oltre che prevedere ulteriori requisiti funzionali al mantenimento della priorità dell’attività agricola (introduzione di un limite dimensionale e funzionale degli impianti connessi all’attività agricola). Tornando al tema della definizione delle aree idonee e non idonee alla installazione degli impianti fotovoltaici, nell’ambito dell’iter di adozione dei decreti ministeriali in materia, ai sensi dell’art. 20 del d.lgs. n. 199 del 2021, pur non trascurando le attuali difficoltà di approvvigionamento energetico da parte delle imprese e delle soluzioni che potrebbero derivare dalla produzione e vendita di energie rinnovabili nella rete in termini di riduzione dei costi e di efficienza dei processi aziendali, appare fondamentale assicurare rilievo all’integrazione degli impianti nel contesto delle tradizioni agroalimentari locali e del paesaggio rurale, avendo riguardo sia alla sua realizzazione che al suo esercizio. Oltre a ritenere opportuno, quindi, ai fini della individuazione delle aree non idonee, provvedere, in primo luogo, alla definizione delle aree agricole di pregio, da tutelare fissando alcuni criteri maggiormente restrittivi ai fini dell’insediamento degli impianti nelle zone classificate agricole, con riguardo all’agrivoltaico, a prescindere dalla localizzazione degli impianti, per garantire che la tecnologia sia orientata, oltre che alla produzione energetica, anche in termini di sviluppo dell’attività agricola, in fase di autorizzazione il proponente dovrebbe essere tenuto a produrre una relazione agronomica che, oltre a garantire la continuità e la redditività delle attività agricole, presenti dati funzionali alla valutazione dei miglioramenti conseguibili dall’installazione dell’impianto agro-voltaico, ovvero stime sulle produzioni, tipologia di utilizzo, numero di addetti, eccetera, da sviluppare mediante un piano colturale teso alla massima valorizzazione agricola del fondo.
Potete quantificare l’aumento dei prezzi dei terreni agricoli in funzione del crescente interesse delle società/dei developer fotovoltaici per impianti su terreni agricoli?
Il fenomeno è la conseguenza del peggior modo di concepire l’agrivoltaico e cioè quello basato sulla cessione del diritto di superficie alle società energetiche, magari procedendo contestualmente alla stipula di contratti di coltivazione per il solo motivo di poter assicurare strumentalmente la qualifica di agrivoltaico all’impianto. Se non si pongono correttivi urgenti per ostacolare questa prassi, il rischio non è solo quello dell’aumento dei prezzi di affitto (che pure potrebbe raggiungere percentuali esorbitanti: sulla base di quanto è già successo durante le fasi iniziali di incentivazione del fotovoltaico a terra, potrebbe facilmente raggiungere e superare il 40%) ma la perdita definitiva di una consistente percentuale di SAU. Occorre tener presente che la redditività dell’agricoltura, attualmente, non può reggere il confronto con quella relativa alla produzione di energia fotovoltaica (specie se incentivata): potremmo quindi concludere che non ci sono limiti ai danni procurabili in questo senso.
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